Istina je prava novost.

Presentazione del Nunzio Apostolico in Croazia mons. Lingua nel Giorno della diplomazia croata

Presentazione del Nunzio Apostolico in Croazia mons. Giorgio Lingua “La personalità giuridica della Santa Sede e la sua attività nella comunità internazionale”. Zagreb, 10 giugno 2021

La personalità giuridica della Santa Sede

Dal 1° giugno scorso, la Santa Sede è, a tutti gli effetti, uno Stato non membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, grazie all’azione del governo italiano, che ha presentato una risoluzione in tal senso durante la 74a Assemblea OMS.

71 membri delle Nazioni Unite, cioè oltre il 30% tra cui, ovviamente, la Croazia, ma anche alcuni Stati con cui la Santa Sede non ha relazioni diplomatiche, come la Cina e l’Arabia Saudita, hanno sostenuto questa risoluzione.

È una nuova pagina della lunga presenza della Santa Sede nella comunità internazionale. L’ammissione è un riconoscimento della diffusione capillare di opere della Chiesa cattolica in tutte le latitudini e longitudini del pianeta in campo sanitario con la sua rete di oltre 110.000 istituzioni sanitarie.

Indubbiamente, è stato importante anche il ruolo attivo e responsabile di Papa Francesco nella lotta al Covid 19.

Precisazioni terminologiche.

Se questa è la più recente testimonianza del riconoscimento della personalità giuridica internazionale della Santa Sede, la questione ha dato luogo a numerosi dibattiti e disaccordi tra i giuristi.

Non ho la pretesa di dare una risposta definitiva, risolutrice, alla complessa questione, cercherò piuttosto di presentare la problematica.

Parlando a diplomatici non mi soffermo sulle questioni terminologiche.

Tutti sapete cosa si intende per personalità giuridica internazionale, chi sono i soggetti del diritto internazionale e quali sono i loro obblighi all’interno della comunità internazionale.

Come pure sapete che i destinatari del diritto internazionale sono principalmente gli Stati ma che possono esserci anche altri soggetti come le Organizzazioni internazionali e, appunto, tra questi “altri soggetti”, vi è la Santa Sede che non è né uno Stato né una Organizzazione Internazionale.

Nel diritto internazionale, le norme sono originate, spesso, da comportamenti costantemente ripetuti nel tempo (consuetudine) e accettati dalla comunità internazionale.

Tutti i soggetti hanno tutti uguale valore, cioè uguale peso giuridico, il voto di Vanuatu o di San Marino vale come quello degli Stati Uniti d’America o della Cina.

Le fonti del diritto internazionale

Nel diritto internazionale gli autori della legge sono i soggetti stessi, che si accordano o in patti bilaterali o in convenzioni multilaterali a cui si possono aggiungere, di volta in volta, nuovi soggetti che aderiscono successivamente firmando, o ratificando, le norme stabilite.

Altra fonte di diritto è la già menzionata consuetudine: il “si è sempre fatto così” nel diritto internazionale ha valore di legge.

Più recentemente si ricorre spesso all’uso di risoluzioni emanate da organizzazioni internazionali che definiscono diritti e obblighi validi per gli Stati che liberamente vi aderiscono.

A volte, infine, si convocano vere e proprie conferenze internazionali di codificazione del diritto, come quelle, ad esempio, sulle relazioni diplomatiche del 1961, sulle relazioni consolari del 1963 o sulle relazioni tra Stati e Organizzazioni Internazionali del 1975.

Ancora una parola sui soggetti del diritto internazionale

Originariamente, la personalità giuridica internazionale, cioè la capacità di essere destinatari di norme internazionali, era riservata agli Stati, che sono tuttora i soggetti internazionali primari e che acquistano la personalità giuridica internazionale per il solo fatto della loro esistenza, come enti sovrani e indipendenti, al momento del loro riconoscimento.

Tale personalità viene però attribuita anche ad alcuni movimenti ed organizzazioni non statali che però, in genere, rivendicano uno Stato, in base al principio di autodeterminazione dei popoli (come i movimenti di liberazione nazionale o Governi in esilio oppure gli insorti).

Hanno pure personalità giuridica internazionale le unioni di Stati istituzionalizzate, cioè le Organizzazioni internazionali, che sono distinte dagli Stati membri (ONU, OEA, UE, etc).

Esistono, infine, “altri soggetti di diritto interazionale” che hanno la capacità di concludere trattati interazionali, come la Santa Sede, l’Ordine di Malta e il Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Praticamente oggi nessuno mette in dubbio la personalità giuridica internazionale della Santa Sede e questo non solo, si badi bene, per la sua sovranità territoriale, che pure possiede, su un simbolico pezzo di terra qual è la Città del Vaticano.

Dobbiamo tuttavia ammettere la difficoltà nel muoverci nel ‘labirinto’ delle opinioni al riguardo che hanno indotto ed inducono tuttora gli studiosi alle formulazioni più diverse. Anche perché la soggettività internazionale avviene tramite il “riconoscimento” reciproco. Qualcuno, pertanto, può riconoscere uno Stato, o un altro soggetto, e altri no, come, ad esempio, nel caso del Kosovo.

La posizione sui generis della Santa Sede

Da giovane studente di diritto internazionale, ho cercato di capire meglio, senza riuscirci del tutto, come viene considerata la “posizione giuridica internazionale della Santa Sede”. Per fare ciò ho preso in considerazione, in particolare, quelle conferenze che sono state convocate per regolare alcuni aspetti della vita internazionale e alle quali la Santa Sede ha partecipato in maniera attiva, e cioè le conferenze di codificazione del diritto diplomatico (1961), del diritto consolare (1963) e dei rapporti tra Stati e Organizzazioni Internazionali (1975).

La domanda era questa: a che titolo la Santa Sede era invitata a tali assisi?

Formalmente lo era in quanto Stato della Città del Vaticano, in realtà non si può dire che lo fosse soltanto perché organo di governo di quel piccolo Paese.

Per molti membri partecipanti alle Conferenze di codificazione del diritto diplomatico, l’esistenza dello Stato della Città del Vaticano era senza dubbio la ragione per accettare la Santa Sede nella Comunità internazionale, ma per la maggior parte degli Stati, e per la Santa Sede in particolare, questo non era assolutamente il motivo o, almeno, il motivo principale. Basta pensare alla questione della precedenza concessa al Nunzio Apostolico nel corpo diplomatico: in base a quale ragione si sarebbe potuto accordare al Capo dello Stato della Città del Vaticano tale diritto?

Per comprendere meglio la questione ritengo un rapido exursus storico.

Un excursus storico.

Fin dalle origini della Chiesa e ben prima della nascita del suo potere temporale, cioè di uno Stato territoriale, il Papa ha inviato suoi rappresentati per mantenere costanti contatti con le differenti realtà ecclesiastiche geograficamente lontane da Roma. Obiettivo era quello di mantenere l’unità cristiana sotto la sovranità spirituale ed il primato della Santa Sede.

Durante il IV sec. le funzioni di rappresentanza del Papa furono affidate ai cosiddetti Vicari Apostolici, vescovi residenziali a cui il Romano Pontefice dava poteri speciali sugli altri vescovi e che lo rappresentavano in un determinato territorio.

Nel V secolo, come faceva l’Imperatore in campo politico, anche il Papa cominciò ad inviare rappresentanti, che erano generalmente diaconi, il cui compito era quello di vegliare sull’integrità della fede nelle provincie dell’Impero orientale e informare il pontefice in proposito.

Nell’Alto medioevo il venir meno dell’autorità imperiale determinò in Occidente un vuoto che fu colmato dalla Chiesa cattolica e il Vescovo di Roma divenne sovrano anche di un potere temporale su alcuni territori ed il ruolo dei suoi rappresentanti si evolse anche se il loro status diplomatico mantenne una funzione di carattere strettamente religioso.

A partire dall’VIII secolo (752), col nascere di uno Stato territoriale pontificio, si comincia a parlare di potere temporale e potere spirituale nelle mani del Papa. Il Vescovo di Roma che prima guidava la comunità cristiana soltanto in materia di fede, ovvero nelle questioni relative alla salvezza dell’anima, al rapporto dell’uomo con Dio, all’interpretazione delle Scritture, ai principi morali, ora assume anche un potere nelle questioni terrene, di amministrazione politica, governo territoriale, legislazione giuridica.

Verso la fine del IX sec. la Santa Sede cominciò a inviare direttamente da Roma, presso le diverse nazioni emergenti in Europa, dei rappresentanti che prenderanno il nome di legati missi (sing. legatus missus), che potranno avere durata temporanea o permanente, secondo le esigenze della loro missione.

Frattanto, con il crescente potere temporale della Chiesa dopo la formazione di uno Stato territoriale pontificio, la politica diviene necessariamente una delle preoccupazioni del papa.

Prova del crescente prestigio ed autorità politica del papato in questo periodo, così come della necessità di assicurarsi amici è anche il riconoscimento diplomatico al Ducato di Croazia concesso dal Papa Giovanni VIII al Duca Branimiro il 7 giugno 879. This day is marked today as the Croatian Diplomacy Day.

Come per ogni Stato che si rispetti, non solo la politica ma anche l’economia è importante. Così, per l’amministrazione dei territori, saranno inviati da Roma anche dei nuntii et collectores, incaricati della raccolta delle decime e delle altre imposte ecclesiastiche nei diversi regni cattolici.

Con il consolidarsi dei Paesi europei e la progressiva nascita delle nazioni, la Santa Sede sentirà la necessità di riorganizzare il sistema della rappresentanza diplomatica, riunendo in un’unica persona le funzioni di carattere religioso, politico ed economico dei rappresentanti pontifici, e a poco a poco si definisce l’istituto della nunziatura.

Le prime missioni permanenti

Durante la graduale modernizzazione della società e delle istituzioni politiche, che ha segnato il passaggio dall’era medievale all’era moderna, si avverte la necessità di intraprendere relazioni diplomatiche più stabili. Anche la Santa Sede si adatterà agli sviluppi internazionali creando, appunto, le nunziature, per assicurare una presenza più attiva del Papato negli affari diplomatici europei.

Saranno, quindi, ragioni pratiche, di natura sia economica che politica, a determinare la creazione delle missioni permanenti, che prendono il posto di quelle temporanee tipiche dell’epoca medievale precedente: il pontefice trasformerà il suo rappresentante in un vero e proprio diplomatico con pieni poteri negoziali.

L’inizio ufficiale delle nunziature permanenti si fa risalire al 1500, anno in cui il Pontefice accrediterà, presso la Repubblica di Venezia, un rappresentante permanente. Parimenti la Repubblica di Venezia invierà un ambasciatore permanente a Roma, che risiederà in quello che ancora oggi è conosciuto come Palazzo Venezia, in piazza Venezia.

Immediatamente dopo, uno scambio di nunzio-ambasciatore avverrà con il Regno di Spagna. L’ambasciatore di Spagna prenderà come residenza quella che ancora oggi è l’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, in piazza di Spagna. In seguito si aprirono le Nunziature in Francia e a Vienna.

Insomma, le prime Ambasciate permanenti nel senso moderno sono quelle aperte dalla Santa Sede e presso la Santa Sede.

Già con il pontificato di Leone X (1513-1521) si assiste ad un graduale aumento delle nunziature pontificie.

In seguito alla divisione della Chiesa in occidente, che costituisce uno dei periodi di maggiore difficoltà e crisi per la Chiesa, e con il passaggio di capi di Stato alla riforma protestante, i rappresentanti pontifici ritorneranno ad occuparsi principalmente degli interessi spirituali della Chiesa.

Tuttavia, la necessità di coordinare le azioni di Roma con quelle delle altre potenze rimaste cattoliche presupponeva contatti costanti che potevano essere assicurati soltanto da una diplomazia stabile.

Inoltre, una riforma interna alla Chiesa, dopo il Concilio di Trento, porta a un ripensamento del ruolo del papa, che cessa progressivamente di essere un sovrano italiano uguale a tutti gli altri, per diventare nuovamente la guida spirituale della Chiesa universale.

Dal trattato di Westfalia al congresso di Vienna

Il periodo brillante della diplomazia pontificia agli inizi del XVII sec. comincia però subito a manifestare una crisi dopo il Trattato di Westfalia (1648), che pose fine alla cosiddetta Guerra dei trent’anni, iniziata nel 1618, e alla guerra degli ottant’anni, tra la Spagna e le Province Unite.

Con il trattato di Westfalia si inaugurò un nuovo ordine internazionale, un sistema in cui gli Stati si riconoscono tra loro proprio e solo in quanto Stati, al di là della fede dei vari sovrani.

Si impone la sovranità dello stato laico e nasce una comunità internazionale più vicina a come la si intende oggi, basata sul concetto di cittadinanza e non più sull’appartenenza religiosa, confessionale.

Il nuovo ordine internazionale ha segnato il definitivo declino dell’incidenza dei fattori religiosi nelle politiche europee e ha forzato la diplomazia papale ad accettare i canoni della diplomazia “classica” europea, assimilandone metodi, forme e pratiche e perdendo, a poco a poco, il suo prestigio, decadendo fino all’epoca napoleonica.

Sarà durante il Congresso di Vienna, cioè dopo la caduta di Napoleone, che la diplomazia della Santa Sede recupererà il prestigio perduto, riacquistando una posizione di rilievo nella politica internazionale.

L’era contemporanea

Arriviamo così all’interessante sviluppo dell’era contemporanea nella quale possiamo distinguere chiaramente tre tappe che ci permettono di entrare nella complessità della posizione giuridica della Santa Sede e di coglierne meglio la sua originalità:

  • dal Congresso di Vienna fino al 1870, cioè fino alla perdita dello Stato pontificio
  • dal 1870 al 1929, cioè fino alla firma dei Patti Lateranensi;
  • dal 1929 ad oggi.

Dal Congresso di Vienna fino al 1870

Per quanto riguarda la nostra questione, dal Congresso di Vienna fino al 1870, fino a quando cioè il Papa è anche capo di uno Stato Pontificio, nessuno mette in dubbio il diritto della Santa Sede di partecipare a pieno titolo alla vita della comunità internazionale, con relativo riconoscimento della sua personalità giuridica internazionale.

Anche se con il Congresso di Vienna si riconosce già alla Santa Sede una posizione del tutto particolare nei confronti degli altri soggetti di diritto internazionale tant’è che viene attribuito al rappresentante del Papa il diritto di precedenza -, tutti sanno che anche la Santa Sede è uno Stato a pieno diritto e forma.

È vero pure che il Sommo Pontefice, insieme ad una funzione politica, esercita anche, e soprattutto, una missione spirituale, ma non è troppo difficile distinguere le due missioni e sapere quando il Papa agisce come capo della Chiesa Cattolica o come sovrano dello Stato pontificio.

In questo periodo, pertanto, non fa problema la soggettività internazionale della Santa Sede, giacché questa è garantita dallo Stato pontificio, il cui monarca è il Sommo Pontefice.

Nessuno può negare il diritto del Papa di partecipare ai vari congressi internazionali e, in particolare, di concludere trattati e di mantenere il diritto di legazione attiva e passiva.

Tra il 1870 ed il 1929.

Dopo il 20 settembre 1870, quando cioè le truppe del Generale Cadorna entrano in Roma attraverso la breccia di porta Pia e mettono fine allo Stato Pontificio, la Santa Sede si viene a trovare senza quel territorio che le garantiva, senza obiezioni, una presenza nell’ordinamento internazionale.

Da quella data, le teorie circa la posizione giuridica internazionale della Santa Sede assumono tre principali posizioni:

– da una parte alcuni sostengono che, con la perdita dello Stato pontificio per debellatio, cioè per conquista bellica, la Santa Sede perda anche la personalità giuridica internazionale ed il Papa, pur rimanendo capo della Chiesa cattolica, non essendo più capo di uno Stato, non possa più tenere, quindi, relazioni con altri Stati;

– per altri, invece, questa nuova situazione creatasi con la conquista di Roma, è proprio l’occasione per dimostrare che la Chiesa Cattolica, in quanto tale, possiede personalità giuridica internazionale nonostante sia priva di un territorio. Infatti, il Papa continua a mantenere relazioni con gli altri Stati, relazioni che vengono per di più garantite anche dal nuovo governo del Regno d’Italia con la Legge delle Guarentigie del 13 maggio 1871, che assicura l’indipendenza del Sommo Pontefice dall’autorità italiana e gli riconosce la libertà di comunicazione con gli Stati esteri.

Continua pure l’attività diplomatica del Papa che non cessa di esercitare, in particolare, le due prerogative della sovranità che sono il diritto di legazione ed il diritto di negoziare trattati, oltre l’esercizio di funzioni di arbitrato internazionale.

Anzi, nel periodo che va dal 1870 al 1929, le rappresentanze diplomatiche della Santa Sede aumentano e passano da 14 a 30. I Nunzi, inoltre, non cessano di godere delle immunità diplomatiche.

Sempre nel periodo che va dal 1870 al 1929 una ventina di trattati internazionali di vario genere (comprendendo quindi sotto questo nome concordati, convenzioni, modus vivendi etc.) vengono conclusi dalla Santa Sede e non solo con le potenze cattoliche ma anche con Stati protestanti o ortodossi.

Diventa chiaro, allora, che la soggettività internazionale della Santa Sede non è legata ad uno Stato, che non c’è più, ma alla Chiesa cattolica;

– una terza posizione sostiene che la Santa Sede ha conservato la personalità giuridica internazionale perché avrebbe mantenuto, seppur in forma ridottissima, un pezzo di territorio che non sarebbe mai caduto in mano degli italiani. Secondo questa tesi, la Santa Sede si presenta alla stipulazione del Trattato Lateranense nel 1929, che pone fine a quella che è stata chiamata la “questione romana” e vede la nascita della Città del Vaticano, ritenendosi titolare di una duplice soggettività, quella della Chiesa Cattolica e dello Stato Pontificio, che già, seppur in forma ridotta e non riconosciuta ufficialmente, aveva mantenuto, ma che doveva essere formalizzata. È la tesi definita Vaticanista.

Dopo il 1929

Dopo il 1929, anno del Trattato del Laterano concluso tra la Santa Sede e l’Italia che crea (e/o riconosce) lo Stato della Città del Vaticano, la situazione, dal punto di vista giuridico, in realtà si complica parecchio.

La difficoltà è data dallo stabilire esattamente il rapporto esistente tra Chiesa Cattolica, Santa Sede e Città del Vaticano.

È difficile stabilire chi sia il vero soggetto nell’ordinamento interazionale giacché la relazione che intercorre tra Santa Sede, Chiesa Cattolica e Città del Vaticano può essere difficile da cogliere, e rende legittima la domanda: a che titolo la Santa Sede partecipa alle Conferenze convocate dalle Nazioni Unite?

La Santa Sede è stata invitata, come dicevo, alle Conferenze di codificazione del diritto diplomatico. Ma se consideriamo a chi è rivolto l’invito di partecipazione a tali conferenze vediamo che, a parte l’ultima, quella del ’75, che è indistintamente rivolta a tutti gli Stati (sempre di Stati, comunque, si tratta), nelle precedenti l’invito è rivolto ai soli Stati membri delle Nazioni Unite o membri di una Istituzione specializzata o Stati parti dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia.

Ora la Santa Sede è membro soltanto di una Istituzione specializzata delle Nazioni Unite e cioè l’International Atomic Energy Agency (I.A.E.A.). Ma a che titolo la Santa Sede è membro dell’I.A.E.A?

Essa lo è in quanto Città del Vaticano e non in quanto organo della Chiesa Cattolica.

Difatti, l’invito di partecipazione è stato rivolto al governo della Città del Vaticano, anche se chi firmerà lo Statuto finale sarà la Santa Sede, pur precisando che firmava a nome della Città del Vaticano.

Il 7 gennaio 1960 il Direttore generale della menzionata Agenzia per l’Energia Atomica, ha fatto conoscere a tutti gli Stati Membri che il rappresentante permanente della Città del Vaticano ha notificato che il suo Governo desidera essere chiamato sempre con il nome di Santa Sede non solo presso quella Agenzia, ma anche in tutte le istituzioni specializzate dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Da quella data, la posizione giuridica della Santa Sede, onestamente parlando, è diventata più complessa.

In conclusione: nonostante la complessità giuridica della questione, pare piuttosto evidente che quando uno Stato tratta con la Santa Sede o quando questa è invitata alle Conferenze internazionali, si sa bene che interessa trattare con la Chiesa Cattolica e non con un minuscolo staterello.

Non è indifferente il fatto che anche la conferenza di codificazione del diritto diplomatico del 1961 abbia confermato al Nunzio Apostolico la possibilità, per i Paesi che vogliono, di attribuirgli la precedenza nel Corpo diplomatico, senza rispettare la cronologia dell’accreditamento.

Questo significa che, indubbiamente, uno Stato che attribuisce la Decananza d’ufficio al Nunzio Apostolico non lo considera come Ambasciatore del Vaticano, più piccolo Stato del mondo, ma come Rappresentante del Capo della Chiesa Cattolica.

Tra parentesi: La menzionata questione della precedenza del Nunzio Apostolico nel corpo diplomatico fu molto discussa all’interno della Conferenza di codificazione del diritto diplomatico a dimostrazione dell’importanza che gli davano. C’era, infatti, chi sosteneva che tale riconoscimento andrebbe contro il principio fondamentale dell’uguaglianza giuridica degli Stati.

Il dibattito fu acceso. I paesi che più si opponevano a tale concessione erano quelli del blocco comunista e, particolarmente attiva, era la Jugoslavia.

Prevalse comunque la posizione di coloro che ritenevano che il diritto di precedenza veniva concesso al Nunzio Apostolico per via della posizione del tutto speciale, essenzialmente spirituale, della Santa Sede nella comunità internazionale.

Insomma, e concludo questa parte sulla quale forse mi sono dilungato troppo, lungo i secoli, la soggettività internazionale della Santa Sede è sopravvissuta alle tormente della riforma protestante, della rivoluzione francese e dell’annessione italiana ed oggi esercita questa presenza nella comunità internazionale attraverso una rete di relazioni diplomatiche che la mette in contatto con oltre 180 Paesi, senza contare i suoi Rappresentanti presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite ed altre Organizzazioni Governative.

Ruolo e attività della Santa Sede nella comunità internazionale

Possiamo ora domandarci: qual è il ruolo di questo soggetto di diritto internazionale, alquanto sui generis, nella comunità internazionale?

Per capirlo è utile rifarsi ai principi che animano la sua diplomazia.

Elenco i principali:

A) un primo principio che motiva la diplomazia della Santa Sede è la centralità della persona umana e dei suoi diritti, a cominciare dal diritto alla vita, in tutte le fasi del suo sviluppo biologico.

Nei suoi interventi la Santa Sede sempre ricorda che la vita è un dono che proviene da un Altro e che, pertanto, è sacra, dal concepimento fino alla morte naturale.

Per questa sua sacralità, per la Santa Sede il diritto alla vita è il fondamento di tutti gli altri diritti, che le stanno pure a cuore, come il diritto alla libertà di coscienza e di religione, quello all’educazione, al lavoro, allo sviluppo umano, ecc. È nota, ovviamente, l’insistenza con la quale la Santa Sede difende la libertà di coscienza e di religione, e non soltanto la libertà di culto.

La garanzia della libertà di coscienza e di religione contempla la possibilità per i credenti, qualunque credo professino, di partecipare alla vita sociale e politica del Paese, basandosi sul principio di cittadinanza che vede ogni cittadino uguale di fronte alla legge, con i suoi diritti e i suoi doveri.

B) Un secondo principio su cui si fonda l’attività diplomatica della Santa Sede è quello relativo alla promozione e difesa della pace.

Questo aspetto dell’attività internazionale della Santa Sede è ben noto. Essa sostiene che sono sempre da preferire, per risolvere le contese, gli strumenti del dialogo e della mediazione, come l’arbitrato di terzi imparziali, o di un’autorità internazionale, munita di sufficienti poteri.

Sappiamo che più volte la Santa Sede stessa ha svolto questo ruolo di mediatore per la promozione della pace.

Ad esempio, nel contenzioso tra Argentina e Cile circa la sovranità delle isole del canale Beagle e dello spazio marittimo adiacente. L’arbitrato della Santa Sede avrà una felice conclusione con la sottoscrizione in Vaticano, il 29 novembre 1984, di un trattato di pace e di amicizia tra i due Paesi latinoamericani e con il solenne scambio degli strumenti di ratifica avvenuto, sempre in Vaticano, il 2 maggio 1985.

Più recentemente, e lo menziono perché testimone personale, la Santa Sede, grazie in particolare all’impegno personale di Papa Francesco, ha svolto un ruolo importante nel riavvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti che ha portato al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi dopo una rottura e uno scontro di oltre 50 anni. È stato emozionante assistere all’alza bandiera alla riapertura dell’Ambasciata americana all’Avana.

La diplomazia pontificia, nella promozione della pace, non si basa su un potere politico o economico, ma sulla forza della neutralità e, grazie a Dio, permettetemi la presunzione, anche sul prestigio guadagnatosi nel corso degli anni per la costante ricerca del bene comune, indipendentemente dagli interessi materiali.

Purtroppo non sempre gli sforzi impiegati arrivano alle auspicate soluzioni.

Ricorderete l’intensa attività e l’impegno personale di San Giovanni Paolo II che inviò delegati personali a Baghdad e a Washington quando la guerra in Iraq, nel 2003, sembrava ormai inevitabile, così come le forti espressioni pronunciate pubblicamente: “La guerra è un’avventura senza ritorno!“, oppure: “La guerra è sempre una disfatta per l’umanità!“. Sfortunatamente quegli appelli sono caduti in orecchi di sordi e le conseguenze nefaste di quel conflitto, certamente evitabile, le portiamo ancora ora e si sono purtroppo espanse.

Uno sguardo particolare a questa regione.

Ancora meglio conoscete l’impegno del Papa polacco per la pace in questa regione, e i suoi numerosi appelli, perché… “In coscienza non posso tacere“, come disse nell’Angelus del 30 agosto 1992 prima di fare appello alle Nazioni Unite e all’Europa affinché dimostrassero il coraggio dell’”ingerenza umanitaria” per “disarmare l’aggressore” nella ex Jugoslavia.

Concetto, questo dell’ingerenza umanitaria, ribadito anche il 5 dicembre 1992, intervenendo a Roma alla Conferenza internazionale sulla nutrizione organizzata dall’Oms e dalla Fao, quando disse: “La coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici: è un dovere per le nazioni e la comunità internazionale“.

Pure il 23 gennaio 1994, giornata di preghiera per la pace nei Balcani, il Pontefice esprime la sua desolazione di fronte a un conflitto che nulla sembra in grado di fermare: “La guerra nelle regioni della ex Jugoslavia continua resistendo ad ogni tentativo di pacificazione, e sconvolge tutti noi per le sue crudeltà e le molteplici violazioni dei diritti dell’uomo. No, non possiamo rassegnarci! Non dobbiamo rassegnarci! Agli organismi competenti rimane la responsabilità di non tralasciare nulla di quanto è umanamente possibile per disarmare l’aggressore e creare le condizioni di una giusta e durevole pace“.

Il 10 settembre 1994, mentre infuria il conflitto, San Giovanni Paolo II viene a Zagabria. Toccanti sono le sue parole pronunciate all’arrivo all’aeroporto dove rimpiange di non esser potuto andare anche a Sarajevo, come avrebbe desiderato, confermando agli abitanti di quella martoriata città che “Non siete abbandonati. Siamo con voi. Sempre più saremo con voi!”, come aveva scritto nel messaggio che avrebbe voluto personalmente leggere davanti al Presidente di Bosnia ed Erzegovina, ma che dovrà limitarsi a inviarlo.

Il 12 aprile 1997, lo stesso Pontefice calpesta finalmente il suolo della città ancora ferita di Sarajevo e pronuncia queste parole: “Mai più guerra, mai più l’odio e l’intolleranza“. E mentre le piaghe sono ancora aperte, il Papa ha il coraggio di invitare a perdonare: “L’istinto della vendetta deve cedere il passo alla forza liberatrice del perdono, che ponga fine ai nazionalismi esasperati e alle conseguenti contese etniche. Come in un mosaico, è necessario che a ciascuna componente di questa regione venga garantita la salvaguardia della propria identità politica, nazionale, culturale e religiosa“.

Diciotto anni dopo la visita di San Giovanni Paolo II, un altro pellegrino di pace, Papa Francesco, metterà piede a Sarajevo: è il 6 giugno 2015. A quasi vent’anni dal massacro di Srebrenica, il Vescovo di Roma cercherà di far leva sul positivo che, nonostante tutto, si è cercato di costruire, sottolineando che “le relazioni cordiali e fraterne tra musulmani, ebrei, cristiani e altre minoranze religiose” rivestono un’importanza che va ben oltre i confini della Bosnia Erzegovina e “Testimoniano al mondo intero che la collaborazione tra varie etnie e religioni in vista del bene comune è possibile“.

Rivolgendosi ai membri della presidenza collegiale composta dai tre rappresentanti per le comunità serba, croata e bosniaca, secondo gli accordi del 1995, Papa Francesco chiede il riconoscimento dei “valori fondamentali della comune umanità” per collaborare, costruire, dialogare, perdonare e crescere; valori da opporre alla “barbarie” e alle “urla fanatiche di odio”.

Papa Francesco pellegrino di pace.

Papa Francesco ha fatto dei suoi viaggi uno strumento privilegiato per promuovere la pace e la convivenza tra le popolazioni, a partire dal suo primo viaggio all’estero, quello in Terra Santa, dove ho avuto l’onore di accoglierlo ai piedi dell’aereo quando è atterrato ad Amman, in Giordania. Si trattava di un viaggio ecumenico, interreligioso e di pace, svoltosi dal 24 al 26 maggio 2014.

Conseguenza di tale viaggio sarà l’incontro di preghiera ecumenica e interreligiosa nei Giardini vaticani l’8 giugno 2014, appena due settimane dopo il viaggio in Terra Santa, dove together with Pope Francis, were present the Patriarch Bartholomaios of Constantinople the Presidents Shimon Peres, of Israel, and Mahmoud Abbas, of Palestine.

Come non menzionare i viaggi in Repubblica Centraficana in piena guerra civile, a Myamar e Bangladesh, Colombia, (2017), così come lo spiritual retreat for civil and ecclesiastical authorities of South Sudan (11 aprile 2017), dove avrà il coraggio di chinarsi a baciare i piedi ai capi delle tre fazioni rivali nel Paese, fino all’ultimo simbolico e storico viaggio in Iraq, unico viaggio organizzato in piena pandemia contro i tentativi di fermalo?

L’anelito per la pace ha spinto Papa Francesco a rischiare tante volte l’incomprensione pur di farsi vicino ed incoraggiare popoli in guerra o reduci da sanguinosi conflitti alla riconciliazione.

È notizia recente che has invited representatives of Lebanon’s Christian community to the Vatican on July 1 for a day of prayer and reflection “about the worrisome situation in the country”

C) un terzo principio che ispira l’agire diplomatico della Santa Sede è la giustizia sociale.

La pace, infatti, è molto più che l’assenza di conflitti. “Non c’è pace senza giustizia!”, affermava San Giovanni Paolo II.

L’insegnamento di Papa Francesco su questo punto è ben noto. Ogni Paese ha il dovere di assicurare ai propri cittadini il soddisfacimento di alcune necessità fondamentali: il cibo, la salute, il lavoro, l’alloggio, l’educazione. Basta rileggere i discorsi fatti durante il viaggio in America Latina nel luglio del 2015 e, in particolare, l’incontro in Bolivia con i Movimenti popolari, come pure l’intervento alle Nazioni Unite dove ha ribadito la necessità di assicurare a tutti le tre T: tierra, techo, trabajo.

Come ricordava già il n. 76 della Costituzione Apostolica Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, “la Chiesa, fondata nell’amore del Redentore, contribuisce ad estendere il raggio di azione della giustizia e dell’amore all’interno di ogni nazione e tra tutte le nazioni“.

Agire prioritariamente in favore dei poveri, denunciando la «cultura dello scarto», operare per la pace, proteggere l’ambiente, guarire le divisioni nel mondo cristiano e nell’ambito interreligioso, per favorire la fraternità tra tutti gli uomini, sono i cardini della diplomazia sociale di Papa Francesco.

D) L’attuale Vescovo di Roma ha dato un taglio nuovo all’attività diplomatica della Santa Sede e si potrebbe cogliere qui un quarto principio, quello della fraternità.

È per il principio di fraternità che papa Francesco si è spesso fatto voce degli ultimi, come quando si è recato a Lampedusa, dove ha voluto esprimere la sua vicinanza e il suo sostegno ai profughi e richiamare l’attenzione sulla tratta delle persone e l’ormai globalizzata cultura dell’indifferenza.

Avendo sperimentato in prima persona cosa significhi lasciare la propria terra, Papa Francesco ha compiuto innumerevoli interventi a favore degli immigrati che stanno mettendo a rischio la propria vita nel disperato tentativo di cercare un mondo più giusto e umano, per sé e per i propri figli.

La promozione della fraternità universale basata sulla giustizia, come spiegherà bene nel manifesto programmatico di questo suo obiettivo, l’enciclica “Fratelli tutti”, si può considerare senza dubbio una delle priorità dell’impegno diplomatico di Papa Francesco, che potremmo definire diplomazia della fraternità.

Ne è un chiaro esempio il viaggio ad Abu Dhabi dove è stata scritta una pagina storica nel rapporto tra cristianesimo ed islamismo con la firma del Documento per la fratellanza umana e la pace per sottolineare che la diplomazia del dialogo è possibile e la sua forza non va sottovalutata.

Aveva già dimostrato questa linea nel suo discorso alle Nazioni Unite il 29 settembre 2015, quando aveva detto: “Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale”.

Pace, diritti umani, giustizia sociale e fraternità, i quattro principi fondamentali della diplomazia della Santa Sede, sono fortemente interdipendenti.

Ciò significa che occorre, prima di tutto, evitare la guerra attraverso la via del dialogo.

Dirà ancora il Santo Padre nel menzionato discorso alle Nazioni Unite: “La guerra è la negazione di tutti i diritti (…). Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale”.

Le armi della Santa Sede

Papa Francesco è ben cosciente che per arrivare alla pace occorre affrontare con coraggio e determinazione la questione della povertà, dell’esclusione e dell’indifferenza. In questo senso ha dato vita a segni provocatori e con grande portata simbolica.

Oltre al citato viaggio a Lampedusa, ha ripetuto lo stesso messaggio con altri momenti carichi di portata simbolica, come il viaggio all’isola di Lesbo per tener viva l’attenzione su un fenomeno che sta assumendo proporzioni enormi e incitare i governi ad adottare misure adeguate.

Anche in Messico ha voluto celebrare una messa alla frontiera con gli Stati Uniti, luogo simbolo delle migrazioni drammatiche verso l’America del Nord.

Sarebbe utile, a questo proposito, qualche parola anche sulla promozione dei cosiddetti “corridori umanitari” escogitati per affrontare, nel rispetto della legalità e dei diritti umani, l’epocale fenomeno migratorio.

La diplomazia pontificia, infatti, si adopera per la pace non soltanto attraverso gesti eclatanti, ma seguendo i modi e le regole che sono propri dei soggetti di diritto internazionale, elaborando cioè risposte concrete, anche in termini giuridici, per prevenire, risolvere o regolare conflitti ed evitare la loro possibile degenerazione nell’irrazionalità della forza delle armi.

Non può condurre alla pace una strategia che si basa sull’equilibrio del terrore. Per una pace sostenibile, è convinzione della Santa Sede che sono molto più efficaci le armi del dialogo e della preghiera. Sono queste le munizioni che conferiscono alla diplomazia vaticana una posizione propria e originale.

Lo si è visto nelle veglie di preghiera e digiuno, organizzate per evitare un conflitto mondiale sulla questione della Siria e la già citata convocazione dei dirigenti dello stato d’Israele e di Palestina per pregare nei giardini del Vaticano. O l’appello mondiale a una “maratona di preghiere” che ha collegato i santuari di tutto il mondo durante lo scorso mese di maggio per implorare la fine della pandemia.

Qualcuno potrebbe dire: guarda i risultati, cosa ottengono le preghiere e i digiuni?

Non ho difficoltà a rispondere: guarda i risultati, cosa ottengono le armi e gli embarghi?

In conclusione: guardando il profilo sostanziale della diplomazia della Santa Sede, si vede come il fine perseguito sia essenzialmente religioso e cioè rientri in quell’essere veri “operatori di pace” e non «operatori di guerre o almeno operatori di malintesi», come ha ricordato il Papa Francesco in una meditazione mattutina a Santa Marta (9.06.2014).

Grazie per l’attenzione.